Si ringraziano la Libreria Universitaria Bicocca e la copisteria AGCopy per la gentilissima collaborazione.
Sono intervenuti in questo numero: Associazione "La Nostra Comunità", Pietro Condemi, Marisa Conte, Giovanni De Angelis, Daria De Vittor, Erika Giobellina, Roberto, Emanuele Serrelli, alcuni studenti di biotecnologie.
Viandante, son le tue orme
la via, e nulla più;
viandante, non c'è via,
la via si fa con l'andare.
Con l'andare si fa la via
e nel voltare indietro la vista
si vede il sentiero che mai
si tornerà a calcare.
Viandante, non c'è via
ma scie nel mare.
Antonio Machado
(citato in M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano, 1989)
Il pesce-studente è razza molto diffusa qui alla Bicocca, non tanto per la sua nota inclinazione ad abboccare alle notizie campate per aria (che questa zona offre in abbondanza), bensì per la sua spiccata attitudine a GALLEGGIARE. Da queste parti infatti questo stupendo animale trova enormi spazi in cui fluttuare invano senza punti di riferimento, fra piani e corridoi apparentemente indistinguibili. Il pesce-studente detesta avere informazioni indispensabili per il proprio presente e il proprio futuro, odia la chiarezza e preferisce farsi guidare da figure indistinte, luci, cartelli e bacheche che occasionalmente emergono dallo sfondo indistinto del mare.
La visibilità in questo ambiente è scarsissima, e i rapporti sociali (sia quelli di conoscenza che quelli di occasionale aiuto reciproco) sono affidati alla contingenza: il pesce-studente galleggiando viene dolcemente sospinto dalle correnti fino ad incontrare improvvisamente il faccione vacuo di alcuni suoi simili, con cui riesce spesso a formare piccoli branchi di supporto, scambio di idee e a volte amicizia. La maggior parte delle volte, però, ancora e ancora le correnti soffiano via il nostro pinnuto amico, scompongono dolcemente i branchi, ne formano altri poco lontano.
Il percorso universitario di ogni pesce-studente tutto sommato è vario, interessante, pieno di spunti e di rapporti fecondi. Peccato che le sue esperienze e i suoi pensieri siano affidati alla marea e non abbiano un luogo in cui emergere. Ed è un peccato che lo studente non abbia la possibilità di elevarsi un po' dal proprio percorso verso la superficie, e di vedere quelli di molti altri, alcuni paralleli al proprio, altri molto diversi.
Ringraziandovi infinitamente per la fiducia che ci avete accordato, diamo a tutti voi il benvenuto in questo esperimento, un giornalino che nasce principalmente con due obiettivi:
Tutto questo senza assolutamente voler contrastare la fluidità e la libertà che contraddistinguono e arricchiscono la vita universitaria. Anzi: volutamente l'organizzazione di Scie ha preso la forma di un coordinamento di contributi, e non di una redazione.
Questa vuole essere una superficie, a disposizione delle scie di tutti. Esiste nel momento in cui ci sono percorsi che le si avvicinano ed emergono fra i flutti. Esisterà se qualcuno se ne prenderà cura e le darà attenzione: la schiuma è labile, spumeggia e subito si dissolve nell'acqua. Osservate queste scie intrecciarsi e cercate di scorgervi delle figure. Quello che vivete e pensate merita di apparire, di essere percepito per un istante prima che lo sguardo si volga al futuro.
Ci scusiamo con Pietro per il ritardo con cui viene pubblicata la sua lettera rispetto agli avvenimenti a cui si riferisce. Ritardo che non toglie l'interesse della sua riflessione rispetto a un problema che va certamente oltre la situazione particolare che l'ha originata. Il coordinamento
Cari colleghi e compagni di studio, io, come voi, ero presente quando il Prof. Fabietti ha lasciato l'aula in segno di protesta contro coloro che, parlando durante la lezione, gli impediscono di svolgerla in maniera per lui appropriata. Con alcuni di voi abbiamo fatto alcune considerazioni al riguardo e ne sono uscite, per sintetizzare, due posizioni distinte: spetta al docente far rispettare la disciplina - in questo caso il silenzio in aula - o spetta agli alunni mantenerlo. Voglio spiegare il mio favore per questa seconda posizione.
In qualità di studenti di questo corso di laurea - Scienze dell'educazione - abbiamo più volte sentito parlare di motivazioni e interessi: occorre "catturare" i discepoli su questi fronti, occorre chiedersi il perché ciò che gli insegnanti dicono riveste interesse. Proprio queste dimensioni sono state evocate da coloro che sostenevano essere responsabilità del docente la disciplina in aula; "come - si diceva - proprio in questa università… il primo a disinteressarsi delle motivazioni di coloro che parlano durante la lezione è proprio colui che dovrebbe insegnarci a valorizzare questa dimensione". Ma, a parer mio, questa tesi è erronea nel caso dell'università, di qualsiasi università si tratti.
Tra i frequentanti, moltissimi sono reduci dalla maturità, ma parecchi provengono dall'insegnamento o da altre facoltà: anagraficamente, non c'è alcuno che abbia meno di 19 anni, ma si potrebbe dire che la media è più alta. Assumendo per legittimo che ciò che insegna l'università ci consentirà uno sbocco professionale, noi siamo assolutamente consapevoli del perché siamo qui: vogliamo essere "educati" per ottenere una qualifica professionale per spenderla sul mercato del lavoro, per essere gratificati da un lavoro che ci consentirà di provvedere a noi stessi e quanto altro. Difficile, io credo, che tale ragionamento possa essere fatto da una persona più giovane, adolescente per esempio: la distanza tra le discipline insegnate e la realtà esterna risulta così ampia che, spesso, non la si riesce a cogliere, magari non c'è neppure, e l'interesse e la motivazione per studiare non possono emergere. Io credo che a questo segmento generazionale vadano applicati i concetti sopra riportati di motivazione e interesse: nella consapevolezza della distanza tra teoria e pratica, nell'accoglimento della predilezione di alcuni per certe discipline piuttosto che di altre, io docente mi relaziono con voi discenti al fine di colmare tale scollamento, di trovare una modalità più a misura per realizzare il passaggio dei saperi.
Ora noi tutti siamo in questa condizione; noi tutti sappiamo cosa siamo venuti a fare qui, sappiamo cosa ci aspettiamo, fatichiamo in alcune discipline più che in altre, ma abbiamo la consapevolezza, talvolta più, talvolta meno, dell'applicabilità di diverse al lavoro che vorremmo leggere in futuro, della necessità di essere ben preparati per affrontare la concorrenza agguerrita di un mercato del lavoro sempre più ristretto, di investire il nostro tempo e le nostre risorse economiche. Di tutto questo noi dobbiamo essere consapevoli perché ne va del nostro futuro.
Non possiamo esimerci dall'assumere questa responsabilità, non possiamo far finta che il problema del silenzio sia un problema del docente e non nostro perché, per ogni lezione non portata a termine, presumibilmente la nostra professionalità futura ne risulterà sminuita. Pensiamoci.
SE NE STANNO NEI LORO IPERURANI, NON STANNO SULLA TERRA, NON SI SPORCANO LE MANI CON LA PEDAGOGIA. MA CHI SONO I PEDAGOGISTI? E SOPRATTUTTO DOVE SONO?
scusi professor Ceruti se cito il suo nome ma è proprio il suo che vorrei citare
Racconto la storia di Anna Oide, una ragazza di ventiquattro anni, timida e riservata.
Un giorno, erano i primi di aprile, si apprestava nell'ufficio del preside per consegnargli una lettera in cui si chiedeva di autorizzare la proiezione filmica di Garage Olimpo a cui sarebbe seguito l'intervento del famoso regista Marco Bechis; l'iniziativa era partita da uno studente della sua stessa facoltà (anche la stessa del preside, dove lui stesso insegna; dove ci insegnano, nella Clinica della Formazione, concetti come deissi esterna e deissi simbolico-proiettiva).
Alla Oide veniva risposto che non era possibile riconoscere un compenso al regista perché la facoltà non dispone di fondi per le iniziative studentesche.
La lettera non veniva firmata (1° tentativo).
Anna correggeva la lettera e dopo pochi giorni tornava nell'ufficio del preside ma non lo trovava (che stupida che si sentiva Anna, continuava ad insistere negli stessi orari, quelli in cui lei non aveva lezione!).
Poi ritornava per avere una risposta. La risposta era che il preside non poteva autorizzare un'iniziativa per un giorno stabilito senza la certezza che dal rettorato venisse concessa un'aula.
La lettera non veniva firmata (2° tentativo).
Anna era un po' stanca (che stupida che si sentiva Anna, le pareva di non riuscire a farsi ascoltare).
La povera Anna, dopo aver ancora corretto la lettera, tornava, ci doveva tornare e riprovare, lo aveva promesso a quello studente di cui si era fatta portavoce.
Ancora non trovava il suo preside (che sfortunata che si sentiva Anna, quando cercava e non trovava).
Ma già si era abituata che doveva comunicare, in differita, con la segretaria del preside; ed ecco la nuova domanda presentata alla segretaria (3° tentativo).
Ed ecco la nuova risposta, arrivava a metà aprile, erano già passati parecchi giorni dall'inizio dell'avventura di Anna (che stupida che si sentiva Anna, si sentiva presa in giro).
La risposta della segretaria era: " il preside non ha firmato la lettera perché dice che non si possono svolgere attività degli studenti in sovrapposizione alla didattica".
Questa risposta è citata perché la narratrice era presente alla scena, quel giorno.
La narratrice pensò "uhm che parolacce si sentono nelle stanze della Bicocca: ma cosa fanno qui i professori, la Didattica? E che cos'è?"
Marisa, la narratrice, si fece raccontare da Anna la storia che è stata qui trascritta perché le pareva interessante e perché a Marisa piace raccontare le storie e poi Anna era proprio un bel personaggio per questa storia e le studentesse e gli studenti, le pareva, erano proprio dei bei destinatari per questa storia così si sarebbero divertiti un po' tra una Didattica e l'altra, e così pure i professori, dopo aver fatto la Didattica.
scusi professor Demetrio se cito il suo nome ma è proprio il suo che vorrei citare
E il professor Demetrio si sarebbe sentito soddisfatto: la narratrice aveva imparato la sua Didattica perché raccontava le storie e poi le trascriveva e perché restassero nella memoria le rendeva visibili a tutti. Avrebbe voluto appendere la sua storia in una bacheca chiusa perché la narratrice aveva imparato anche un'altra cosa da quando sta nella Bicocca: qui prefino le porte delle stanze devono stare chiuse, chiusissime, quando dentro c'è qualcuno, perché altrimenti vola via il sapere! (Storia non autorizzata)
NADA: Eccoli! Arrivano gli anziani, quelli di prima, quelli di sempre, gli impietrati, gli ottimisti, gli agiati, i senza uscita, i rileccati, tutta la tradizione seduta, prospera e ben rasata.
Eccoli i sartorelli del nulla: sarete vestiti tutti su misura.
Ma non vi allarmate: il loro metodo è il migliore. Invece di chiudere la bocca a chi grida la sua sventura, si chiudono le orecchie. Eravamo muti, diventeremo sordi.
Attenzione ritornano quelli che scrivono la storia. Ricominciamo a curarci degli eroi.
Guardate: che cosa credete che facciano? Si distribuiscono decorazioni.
La terra esaurita si copre col legno marcio delle forche, il sangue di color che chiamate i giusti illumina ancora i muri del mondo, ed essi che cosa fanno? Rallegratevi avrete i vostri bravi discorsi.
Colui che amavo, contro lui stesso, è morto, derubato!
I governi passano , la polizia resta. C'è dunque giustizia.
22° DONNA: No, non c'è giustizia, ma ci sono i limiti. E coloro che pretendono di non regolare nulla, come coloro che pretendono di regolare tutto, passano ugualmente i limiti.
Aprite le porte, che il vento e il sale puliscano questa città.
Da "Lo stato d'assedio" di A. Camus
Per chi entra la prima volta in questo conglomerato di edifici rossi, è difficile non perdersi.
Un cartellone gigante col "fantastico progetto Bicocca 2000" (o "Città Bicocca" che sia), sembra preparare spiritualmente all ingresso nel paese felice.
Raffigurato c'è tanto verde, ma oimè, la parte realizzata offre tuttaltra visione! Un piccolo inconveniente di passaggio dalla bi- alla tri-dimensionalità, dall'ipotetica progettualità alla concreta realizzazione.
I sorridenti alberi virtuali (del manifesto), sono ridotti (nella zona ultimata) a tristi arbusti che spuntano miracolosamente a intervalli di spazio regolari da grossi quadrati di cemento bianco.
Che sia tutta plastica?
Veri o finti? Anzi, Veri o sintetici? (Poiché dire artificiale non equivale propriamente a parlare di finzione; intesa come cosa falsa). Sorge spontanea la tentazione di staccare una foglia o un rametto… - "Incivile, vandala, maleducata…!". Mi vedo arrivare il simpatico ometto della security, un bell'imbusto (si fa per dire) bell'imbottito (sicuro di più) "addestrato" e pagato per ammonire, multare e punire gli irriducibili evasori del regolamento "bicocca".
È proibito, logicamente, danneggiare la struttura, ma soprattutto in ogni corridoio, angolo, scala… tutto, bar compreso è severamente vietato fumare. Se bevi un caffè (felicemente schiavo di piccoli, piacevoli vizietti) devi fastidiosamente spostarti all'aperto e anche d'inverno prima di poter "appizzare" la classica sigaretta, categoricamente fuori!
Una sorta di supermercato gigante, in cui la sensazione più naturale è sentirsi ovunque fuori luogo; inumana e troppo fredda; sembra studiata apposta per farti rientrare nella classica ottica - CONSUMA E VIA!.
Voglio descrivere un ultimo breve flash, per rendere l'idea (pur rasentando il grottesco): l'istantanea di una gita di scuola elementare con tanti bimbetti in fila, ordinati e scortati da due security men (altamente stimolante per la futura carriera scolastica!). A parte questa parentesi, credo ci sia una contraddizione di fondo tra la gente, il tipo di studi e l'ambiente.
Ho incontrato molte persone disponibili, non so se sia un caso o una scelta sentita per un certo tipo di indirizzo scolastico, che in fondo ti porta a una maggiore apertura mentale e più attenzione per chi ti circonda .
Ma poi la contraddizzione di fondo di essere disposti a SPENDERE del tempo e investire energia, ma senza riuscire a conquistare la dimensione spaziale. Cosa? Perché? Come? …A tutte puoi trovare una risposta, e anche il tempo, ma alla domanda: dove?
No risposta, no comment!
Credo, in straultimissimo, che sia indispensabile, anzi che sia un diritto per noi studenti, avere un angolo di Bicocca in cui costruire materialmente qualsiasi cosa di sensibilmente palpabile. Sono belli i "castelli d'aria", ma la realtà pare una prigione in cemento , e in fondo inibisce qualsiasi fantasiosa astrazione.
Rivelandoci il vostro interesse per le diverse modalità di insegnamento, l'intraprendente "capo-redattore" di Scie ci ha stimolati a sottoporre brevissimamente alla vostra attenzione un'usanza che vige nella didattica di alcune materie del nostro corso di laurea: il massiccio ricorso a specialisti.
Alcune discipline arrivano ad essere insegnate da più di dieci docenti, perlopiù esperti che trattano per pochi giorni temi strettamente attinenti alle proprie ricerche.
Gli studenti commentano positivamente: avere uno specialista dell'argomento permette un notevole approfondimento dei particolari, la possibilità di ricevere risposte precise alle domande, la certezza di avere informazioni aggiornate (tenete conto che le conoscenze nel nostro campo sono in costante e rapidissima evoluzione, e che ogni anno molti libri vanno buttati via e riscritti da capo).
Il problema principale è la coordinazione degli interventi: la scarsa comunicazione è evidente sia dalle sovrapposizioni ridondanti delle varie parti (si perde un sacco di tempo a spiegare alcuni argomenti già spiegati) che dalle conoscenze date per scontate (che magari non sono ancora state spiegate da nessuno). Viene da pensare che senza una comunicazione frequente e seria sia difficile costruire degli obiettivi comuni e dei percorsi organici per raggiungerli, cioè una didattica. In effetti tutto fa pensare che la didattica stessa non sia fra le prime preoccupazioni di chi dovrebbe realizzarla.
Oltre a questi problemi di realizzazione, c'è chi obietta qualcosa anche al principio stesso di questo metodo: forse è inevitabile che la moltiplicazione degli specialisti porti ad una frammentazione dell'offerta formativa e della conoscenza che ne risulta. Perlomeno ci sono alcune persone che trarrebbero più beneficio da una formazione forse meno approfondita ma più strutturata, ordinata, "formativa".
L'ASSOCIAZIONE "LA NOSTRA COMUNITÀ" CERCA VOLONTARI per un servizio di "Tempo Libero" che permette a ragazzi disabili di uscire con gli amici, di incontrare nuove persone, di divertirsi e di passare i loro momenti liberi in allegria e felicità!!!
"…durante il tempo libero siamo usciti con Mara Colombo: abbiamo mangiato la pizza, siamo andati allo stadio a vedere Inter-Bologna, siamo andati in piazza Duomo per la giornata dello sport e siamo andati a giocare a boowling. A me piace uscire con Mara perché faccio le cose che non ho mai fatto e perché sono uscito con i miei amici…" Denti Matteo
Associazione "La Nostra Comunità", via Zante 36 Milano
tel. 02/715535. Responsabile organizzativa: Mara Colombo.
Una particolarità del pedagogista è certamente quella che la sua professione nasce dall'esperienza, dal vissuto prima che dall'acquisizione di competenze formalizzate e rigorose. Molti di noi vengono da esperienze di volontariato, e ne sono stati toccati al punto da farne (si può dire) una scelta di vita. Per alcuni di noi acquisire una professionalità non significa abbandonare completamente esperienze di volontariato, ma anzi aiuta a viverle in modo nuovo. Perciò penso che in questo giornalino anche enti e associazioni possano avere uno spazio, per continuare a proporci esperienze forti contrassegnate dalla gratuità.
Gironzolando per i palazzi delle facoltà scientifiche, mi è capitato di leggere un manifesto molto interessante (tanto da staccarlo, fotocopiarlo e riattaccarlo al suo posto): Autonomia delle università, autonomia nelle università, comunicato stampa al termine del Convegno su Università e Riforma "Difendiamo il futuro". Ora, confesso che non sapevo dove si fosse tenuto questo convegno, né chi vi avesse preso parte ma, visto l'argomento, mi sono meravigliato di non vedere questo foglio dalle nostre parti, dove i sistemi educativi dovrebbero trovare un interesse particolare. Nella convinzione che risulterà stimolante per altri, mi permetto i riportare (con alcuni tagli) il testo di questo comunicato stampa invitando la lista OBIETTIVO STUDENTI (a cui spetta il merito di averlo diffuso) e qualsiasi altro gruppo a partecipare alla riflessione sulla riforma nello spazio del nostro giornalino.
LIBERTÀ DI EDUCAZIONE
1. È tempo di riforme. Rispetto agli altri paesi europei, l'università italiana sforna pochi laureati, perché prevede un corso di studi troppo lungo con un livello troppo alto di preparazione richiesta (almeno teoricamente). La riforma della didattica provvederà a compensare questo «squilibrio» e a integrarci in Europa. Per affrontare la nuova situazione avremo bisogno di una fisionomia in parte diversa della docenza, con un cospicuo numero di addetti a una didattica manualistica e di prima informazione, destinata alle «classi» del triennio (il quale permetterà di conseguire una Laurea base, cui potrà seguire una Laurea specialistica e poi un Dottorato). Di qui le proposte relative alla introduzione di una terza fascia di docenti e di una più ampia categoria di giovani «tirocinanti» (sono tra i punti attualmente in discussione nel disegno di legge sullo stato giuriudico dei docenti). Vedremo come andrà a finire. Ci auguriamo che, in ogni caso, il tentativo di «adeguamento» in corso si realizzi nel rispetto di una tradizione ricchissima e della vocazione intrinseca alla universitas studiorum, che non è quella di produrre titoli, ma di educare le giovani generazioni a una consapevolezza critica e sistematica della propria esperienza della realtà, attraverso la libera ricerca e il libero insegnamento di maestri. Nessun intento di riformare e uniformare l'università italiana può evitare di misurarsi, nella sua attuazione, con la tradizione e con il compito dell'università stessa. L'esigenza di «integrazione» non può sacrificare quella, in ogni senso vitale, dell'educazione, a meno di non accontentarsi di risultati fittizi per un provvisorio tornare di conti.LIBERTÀ NELL'UNIVERSITÀ
2. Con non poche incertezze e incongruenze […], stiamo andando verso una autonomia delle università: una autonomia gestionale e amministrativa che assicuri alla vita dei singoli atenei italiani una relativa indipendenza dal controllo nazionale-centrale. Quella autonomia è certo una tappa importante, essenziale, per ridare fiato, slancio, capacità produttiva e competitiva alle nostre università. Ma non ci si illuda. Se l'autonomia delle università non coinciderà con una autonomia nelle università non sarà che una vittoria di Pirro. Le cose cambieranno solo se autonomia significherà più libertà dentro le università, e non perché la gestione della macchina istituzionale verrà decentrata. Occorre più libertà di iniziativa (di ricerca, di insegnamento, di cooperazione) per chi ha qualcosa da dire e da proporre, per chi vuole investire le proprie risorse e costruire. Questa è la prova decisiva: che l'autonomia degli atenei dia luogo ad un nuovo rapporto tra l'istituzione e la comunità universitaria, in cui l'istituzione non abbia la pretesa di fare tutto, di assolvere e di controllare direttamente ogni funzione, ma si concepisca al contrario come un sostegno e uno spazio offerto alla libertà e alle capacità di docenti e studenti che, singolarmente o insieme, sappiano generare iniziative congrue agli scopi della vita universitaria e risposte dinamiche ai bisogni che la segnano. È la sussidiarietà, infatti, l'unica risposta alla lentezza e alla burocratizzazione che paralizza nelle università italiane uomini e risorse, non un rigurgito di protagonismo istituzionale che rafforzi la macchina normativa e moltiplichi i regolamenti attuativi […].LIBERTÀ DI INIZIATIVA ECONOMICA
3. L'università ha bisogno di maggiore libertà e di maggiori risorse, non di una nuova e più rigida istituzionalizzazione che mortifichi ancora di più le potenzialità, le idee e la creatività dei suoi protagonisti. Le risorse economiche a disposizione delle università italiane sono, com'è noto, risibili […]. Occorrerebbe avere il coraggio di pensare a nuove configurazioni giuridiche e a forme di finanziamento (capaci di scartarsi dal circolo tassazione/spesa pubblica) che avvicinino l'università più a un'impresa non-profit che a un ufficio ministeriale. Si tratta, beninteso, di una direzione da prendere, in un paragone critico con gli esempi esistenti oltre-confine, e non di una pretenziosa ricetta […].LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE
4. L'università che si sta profilando sembra destinata a somigliare sempre più a una dilatazione della scuola media, a una sorta di università-liceo. Le ragioni sono molte, i rischi altrettanti. Per esempio, e non è di poco conto, quello di mettere a capo a una sorta di domesticazione dell'utente, in cui gli studenti vengano concepiti come fruitori passivi, meri consumatori di prodotti culturali «alleggeriti», e non invece come protagonisti in un percorso di ricerca sviluppato da maestri, generatori insieme a loro di cultura, e come soggetti capaci di creare risposte ai propri bisogni, espressive di posizioni consapevoli e critiche. La valorizzazione - in termini di riconoscimento, di spazi o di sostegno economico - della presenza attiva e partecipe degli studenti non può essere considerata come una gentile concessione dell'istituzione, ma come una dimensione irrinunciabile della realtà universitaria, nella misura in cui intenda mantenersi fedele al suo compito.Lista OBIETTIVO STUDENTI
P.S. Successivamente mi sono informato sugli estremi di "Difendiamo il futuro": si è tenuto il 15 marzo 2000 alle 9.30 presso l'Aula Magna della prima Università degli Studi di Milano. Hanno partecipato docenti e soprattutto rettori provenienti da varie università d'Italia. Il convegno è stato organizzato dal Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio con il contributo del Centro Europeo Università e Ricerca.
3+2, sembra un'offerta del supermercato e invece è la nuova riforma dell'università. Il ministro Zecchino ha fortemente voluto una riforma che potesse essere in grado di far laureare i ragazzi in meno anni possibile, per essere più competitivi sul mercato del lavoro rispetto ai coetanei europei.Una riforma, dice il ministro, che diminuirà il numero degli studenti fuori corso e che fornirà, unita alla riforma del ministro Berlinguer, dei laureati a 22 anni pronti ad entrare nel mondo del lavoro oppure, se lo vorranno, in grado di continuare a studiare per altri due anni per conseguire un laurea di specializzazione.
A questo punto sorgono spontanee alcune domande: come diminuiranno gli studenti fuori corso, se l'organizzazione interna dell'università rimarrà inalterata? In che cosa consiste la laurea di tre anni? Il ministro Zecchino si è dimenticato che esistono diplomi universitari e lauree brevi riconosciuti a livello europeo, della durata di due o tre anni? Ma andiamo con ordine.
La prima domanda è più che legittima, dato che il numero degli studenti fuori corso è dovuto non certo dalla durata del corso di laurea, ma dalla sua organizzazione. E' molto difficile, infatti, per mille ed oltre studenti, seguire una lezione in un'aula da 500 posti e riuscire ad intraprendere quel percorso formativo tanto auspicato dal ministro e dai professori; così come è altrettanto difficile poter programmare di dare tre esami nelle sessioni di gennaio e febbraio quando, a causa dell'alto numero di iscritti, l'esame viene rimandato di un mese.
Alla seconda domanda si può rispondere solo con un: chi lo sa? Forse neanche il ministro Zecchino lo sa. Si tratta di tre anni in cui saranno condensati gli insegnamenti di quattro o cinque anni; tre anni di pura teoria che renderanno inefficienti i laureati nel mondo del lavoro, perché privi di ogni conoscenza pratica; oppure saranno tre anni in prevalenza di pratica, che non forniranno allo studente le adeguate basi teoriche per poter avere successo nel mondo del lavoro?
E le lauree di quattro anni? Ne cancelliamo uno? E dove lo mettiamo?
A tutte queste domande senza risposta si riallaccia il quesito che riguarda i diplomi universitari. Infatti, i corsi di laurea che hanno potuto condensare alcuni insegnamenti ed eliminare alcuni esami hanno già creato corsi di diploma universitario o lauree brevi corrispondenti, che permettono un accesso immediato al mondo del lavoro. Perché non potenziare e pubblicizzare meglio questi insegnamenti già esistenti? Il ministro Zecchino ha scoperto l'acqua calda.
Una teoria che spiegherebbe la riforma del ministro Zecchino, unitamente a quella altrettanto incomprensibile del ministro Berlinguer, mi è venuta in mente: il loro scopo, facendo laureare gli italiani a 22 anni, è quello di fornire loro la possibilità di raggiungere una certa indipendenza economica in modo che vadano via di casa prima di quanto non facciano adesso. Così ci affranchiamo dall'epiteto, datoci da tutti gli europei, di mammoni!
L'università italiana avrebbe bisogno di una riforma interna e non di facciata, avrebbe bisogno di più soldi e più professori, avrebbe bisogno di maggiore serietà, di una riforma, per parafrasare uno pseudo-politico, che ho in mente io, e che di sicuro, avete in mente anche voi.
Primo principio: la formazione è un processo di destrutturazione e ristrutturazione, non di accumulazione di conoscenze. Secondo principio: di conseguenza il contatto con i testi non può essere sufficiente a formare: ci vuole un setting a contatto con docenti, corsi, seminari, convegni ecc. Terzo principio: i principi teorici sono indispensabili, guidano l'azione e permettono l'innovazione, ma per essere efficaci devono essere ecologici, cioè sapersi continuamente riformulare in relazione alle situazioni reali.
Fondata su questi principi, la nostra Facoltà è in un momento critico perché paradossalmente rifiuta di confrontarsi con la realtà.
Vogliamo favorire la frequenza? Giustamente aboliamo l'appello di aprile. Peccato che in questo modo l'appello di febbraio si sia comunque protratto fino ad aprile, che le aule non siano in grado di contenere tutti gli studenti che dovrebbero seguire, che i docenti stessi non siano in grado di gestire le dinamiche di grande gruppo che si vengono a creare e che tutto ciò abbia un effetto logorante per i nervi di molti. Diciamocelo chiaro: siamo troppi! Che fare? È opinione diffusa che limitare l'accesso sia ingiusto. Farlo attraverso i test dà risultati fortemente arbitrari. E, quel che è peggio, forse tutto ciò potrebbe essere evitato in una Facoltà che potrebbe disporre di attenzione, conoscenze e idee per organizzare una didattica diversa. Invece no: si fa finta di niente, ci si aggrappa ai principi.
Non c'è solo il sovranumero: c'è un'enorme eterogeneità di passato, di presente e di futuro. Di passato per la diversità di provenienza e di basi culturali. Di presente: recentemente proprio qui alla Bicocca lo psicologo Howard Gardner sottolineava che ci sono diversi tipi di intelligenza, diversamente combinati in ogni persona; un singolo approccio ai contenuti non può produrre alti livelli di conoscenza in tutti i soggetti. Di futuro: l'università è diventata punto terminale per l'istruzione di massa, poiché è ormai convinzione generale (e non del tutto infondata) che una laurea sia necessaria e quasi sufficiente per trovare un'occupazione; molti studenti non riescono-possono-vogliono trarre beneficio da un modello di formazione che è rimasto d'élite, come se gli universitari fossero tutti accademicamente orientati, e tutti destinati all'insegnamento o a un'occupazione intellettuale di alto livello! Certamente l'università DEVE restare sede di conoscenze scientifiche e riflessioni rigorose e complesse, ma proprio per questo non è possibile che proprio qui si ignori la complessità del reale e si cerchi di appiattirla su false omogeneità e semplificarla tramite modelli che non funzionano.
Penso che la Riforma dell'Università sia una grande occasione per dare uno sbocco produttivo a questi vicoli ciechi. Innanzitutto il "3+2" deve essere valorizzato in funzione dell'eterogeneità di futuro di cui parlavo prima. Certamente questo richiede il ripensamento di alcuni difficili rapporti, per esempio:
L'autonomia degli atenei e il sistema dei crediti formativi potrebbero permettere una flessibilità didattica che tenga conto del sovranumero e dell'eterogeneità di presente: perché non offrire tanti modi diversi di acquisire crediti per un esame? Lavori di gruppo, approfondimenti individuali, ricerche (magari sottoforma di tesine o di prodotti multimediali)… La lezione e l'esame vanno benissimo (per alcuni), ma potrebbero rinunciare alla propria centralità in favore di molte altre possibilità teoricamente fondate e praticamente realizzabili per produrre formazione e non solo apparenza.
Una didattica nuova porrebbe problemi enormi di garanzia della significatività (non vogliamo una università-supermarket) e di valutazione di percorsi tanto diversificati. Certamente gli studenti dovrebbero essere seguiti più individualmente, e per una simile attenzione clinica mancano ovviamente le persone e i soldi. Però perché non coinvolgere gli studenti stessi per garantire e orientare il percorso dei più "giovani", tramite un sistema di tutoraggio con supervisione a cascata? Ci sono studi psicologici che dimostrano che chi aiuta ad imparare migliora il proprio apprendimento. Forse essere una specie tutor potrebbe fruttare crediti formativi, se non valere come tirocinio.
Sono solo alcune idee "buttate lì" per l'istruzione del futuro… ma la Facoltà di Scienze della Formazione di Milano dovrebbe averne tante, ed avere un ruolo trainante nell'applicazione della Riforma Zecchino, all'insegna della fiducia e dell'autonomia.
Idee per Nessuno… sembra però che non solo a noi studenti non sia concesso potere decisionale… che non solo non abbiamo la facoltà di fare proposte… ma non abbiamo neanche il diritto di sapere chi, come, cosa, quando si sta decidendo del nostro futuro.
Ci sono persone perseguitate perchè hanno espresso le proprie idee.
Ci sono persone che vengono uccise perchè sono di un'altra razza.
Ci sono persone che subiscono torture perchè lottano per i propri diritti.
Ci sono persone che si spengono in prigione perché aspettano un processo.
Ci sono persone condannate a morte perché esistono leggi che lo consentono.
E ci sono persone che lottano contro tutto questo.
I diritti umani sono una questione che riguarda solo "gli altri", quei Paesi vittime di regimi dittatoriali che si fondano sul terrore? No, le cronache quotidiane ce lo dimostrano. E perché io me ne dovrei interessare? Perché senza pressioni internazionali, senza il sostegno di persone come me, non è possibile fare niente.
Ma è possibile fare qualcosa? Amnesty International crede di sì. Ecco perchè ha scelto come motto il proverbio cinese del titolo, ecco perchè il suo simbolo è una candelina. Piccola,ma un po' di luce è sempre meglio di niente...
Il 10 dicembre 1948 è stata proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per promuovere il rispetto e l'osservanza dei diritti e delle libertà fondamentali in vista di un mondo libero dalla paura e fondato sulla giustizia. Oggi, dopo 50 anni, c'è ancora molta strada da fare perché quelle parole diventino fatti, ma molto è anche cambiato. Basti pensare che l'episodio che ha indignato l'avvocato inglese Peter Benenson al punto da lanciare un appello internazionale per liberare i prigionieri dimenticati avvenne nel 1961 nell'oggi democratico Portogallo, dove due studenti furono condannati a 7 anni di carcere per aver brindato alla libertà in un ristorante.
Nel giro di sei mesi fu creato a Londra un segretariato per raccogliere informazioni e pubblicizzare i singoli casi: nasceva Amnesty International, che oggi, con un milione di soci e settemila gruppi attivi distribuiti in tutti i Paesi, è la più grande organizzazione mondiale che opera in questo campo. Ha seguito 44.000 casi, raggiungendo un esito positivo in circa 40.000 di essi.
IL MANDATO
A.I. è, per ovvie ragioni di imparzialità, indipendente da qualsiasi governo, parte politica e credo religioso. Per lo stesso motivo, ogni gruppo nazionale non può occuparsi di casi che riguardano il proprio Paese. Si autofinanzia attraverso i contributi di soci e le azioni di raccolta fondi.
IL CAMPO DI AZIONE
Per un'azione più efficace, A.I. ha scelto di concentrarsi su alcuni tipi di violazioni dei diritti umani:
L'associazione si occupa inoltre anche di altri temi, come quello su cui si concentra una campagna attualmente in corso: il controllo della circolazione di armi leggere (l'Italia, terzo produttore mondiale, vende ad esempio armi di questo tipo a Paesi in guerra).
L'ORGANIZZAZIONE
Il segretariato di Londra raccoglie e verifica le informazioni sui casi, lancia le azioni e le campagne che vengono distribuite contemporaneamente a tutte le Sezioni nazionali e infine pervengono ai singoli gruppi. In questo modo, al destinatario della petizione arrivano centinaia di migliaia di firme da tutto il mondo nello stesso momento. E i governi ci tengono all'immagine internazionale...
COME SI PUÒ COLLABORARE?
Prima di tutto firmando le petizioni che si possono trovare sui tavolini in giro per le vie della propria città o in fiere, concerti o eventi particolari.
Ma ci sono altre due modalità di collaborazione pensate apposta per gli studenti:
Io (ah dimenticavo sono una matricola di Scienze dell'Educazione) ho fatto parte per 5 anni del gruppo studenti del mio liceo a Novara, e ora mi piacerebbe davvero trovare da parte vostra la disponibilità a collaborare anche all'interno dell'università.
È molto meno complicato di quel che possa sembrare!
Grazie dell'attenzione (per chi è stato così eroico da seguire fin qui!), contattatemi per qualsiasi dubbio o informazione.
Daria De Vittor - tel.0321402767 - e-mail [email protected]
Kahil Gibran scriveva così: "Per vivere bisogna avere coraggio. Un'avventura, la vita, che richiede un'unica audacia: scoprire che non si può vivere attraverso l'esperienza degli altri, e che bisogna essere disposti ad abbandonarsi".
Così il giorno 7 Marzo 2000, anche grazie al supporto dei miei genitori e di alcuni amici, avevo finalmente l'opportunità ed il coraggio per intraprendere un viaggio dentro l'ignoto, nel Kenya dei miserabili e delle guerriglie perché anche io volevo divenire parte attiva del legame di solidarietà tra il mio paese, Marnate, e padre Mariano Tibaldo, nostro concittadino.
Sono partito solo con me stesso, lasciando per circa un mese la vita di tutti i giorni, caratterizzata da certezze, sicurezze e opulenza per immegermi in un'altra realtà completamente differente dove la lotta per la vita e l'instabilità regnano incontrastate.
All'aeroporto di Nairobi vi è ad attendermi il caro amico Mariano, missionario comboniano che da vent'anni dedica la sua esistenza ai più bisognosi di questo mondo, il quale durante questa straordinaria esperienza, vissuta insieme, mi è sempre stato vicino con il suo esempio e il suo amore, aiutandomi ad affrontare le tragedie umane che lacerano questo paese.
Mi sento immediatamente a mio agio fra la gente africana, perché l'accoglienza di queste persone è eccezionale: l'ospite è sacro, è un dono. Il 10 Marzo partiamo in safari (viaggio) alla volta del West Pokot, territorio a Nord Ovest confinante con l'Uganda. Nei Manyatta (villaggi) la gente vive in capanne di sterco, accende il fuoco con i bastoncini di legno, si mangia una sola volta al giorno un po' di farina diluita con acqua e le condizioni igieniche sono praticamente assenti. Vedere i Pokot è stato come rivedere l'uomo alle sue origini primordiali ma a rendere più buia questa situazione è la guerriglia, una di quelle che ai "potenti" del mondo non interessa che però ogni mese miete decine di vittime perché se prima si usavano archi e frecce ora i famigerati Kalashnykov uccidono gli uomini come mosche. Perciò la popolazione vive in povertà estrema e logorata da una tensione costante per paura dei raids, queste razzie improvvise che non risparmiano nessuno, ma ciò che mi ha messo in crisi è la voglia di vivere che hanno queste persone: per esse tutto diviene sacro e inviolabile. I loro occhi riescono a vedere cose che noi occidentali consumistici non riusciamo più a scorgere: l'importanza della persona, del singolo in quanto portatore di un messaggio unico e speciale che viene apprezzato e condiviso dall'intera comunità. Se l'immagine della società occidentale è quella di una caotica città popolata da individui competitivi che si annientano l'uno con l'altro tramite telefoni cellulari alienati decretando sempre vincitori, invece la contrastante immagine della società africana è quella del villaggio, di una comunità che include.
Qui il rapporto umano è celebrato, i cuori sono aperti all'umanità essendoci in essi dolcezza, compassione e soprattutto umiltà, forse è per questo motivo che sono così vulnerabili, fragili e facilmente soffrono però sono ancora in grado di comunicare con l'anima del mondo.
Il Kenya presenta differenti realtà imparagonabili fra loro ma tutte ugualmente tragiche che ti assalgono senza nemmeno riassorbirle; a Nairobi accanto al kenyota del "primo mondo", che possiede l'automobile lussuosa e l'abitazione dotata di ogni genere di comfort, trovi lo "street boy" (ragazzo di strada) che sniffa la colla oppure uno dei numerosi "slums", le baraccopoli che circondano la città. Uno di questi è Korokocho Slum dove nel raggio di pochi Km quadrati vivono piu' di 100.000 persone, a cui un "grande piccolo" uomo, padre Alex Zanotelli, insieme a padre Antonio D'Agostino stanno offrendo da 12 anni uno spiraglio di speranza a quello che può essere definito l'Olimpo della Sofferenza.
Una distesa di baracche di fango con il tetto in lamiera distanti 50 cm l'una dall'altra; in mezzo ad ogni vicolo, ovviamente sterrato, scorre un fiume maleodorante di escrementi e di rifiuti. Non vi è acqua potabile, elettricità, si vive in condizioni subumane in un clima di violenza e di insicurezza eterna; dentro di me ho un cocktail di emozioni che stanno per divenire esplosive: paura, rabbia, stupore, incredulità, gioia e tristezza che non mi lasciano un attimo di pace rosicchiandomi piano piano di sprechi e materialità. Mi sembra ancora di respirare quella puzza acre, pungente che ti penetra in ogni poro della pelle: questa non è una vita umana, i nostri animali civilizzati hanno più dignità dei disperati dello slum.
Guardandoti intorno non vedi altro che povertà, delinquenza, sofferenza, fame e malattie: dov'è la giustizia in questo mondo di ingiustizia estrema, dove c'è chi ha troppo e non è mai contento e dall'altra parte del pianeta vi è il miserabile che spera ogni giorno di poter vivere l'alba del giorno seguente.
Ma che cos'è questo abisso che separa le persone? Perché siamo incapaci di guardare diritto negli occhi il "diverso" che ci sta accanto e ascoltarlo?
Io sospetto che noi ecludiamo perché abbiamo paura che i nostri cuori possano soffrire se toccati dal dolore altrui; tutti noi più o meno ci sentiamo al sicuro nella nostra cultura e nelle nostre abitudini ed entrare in relazione con la nostra diversità può significare far barcollare, o addiritura naufragare la barca in cui viviamo. La paura è all'origine di tutte le forme di esclusione, così come il rispetto e la fiducia son alla base di ogni forma di inclusione: ognuno di noi è al mondo per aiutare i suoi fratelli e non per condannare il prossimo.
Questo mio grande contatto con l'Africa mi ha reso più umano, più sensibile: ho ritrovato la nostra fondamentale unità e comune umanità.
I bimbi africani mi hanno insegnato a sorridere alla vita, anche se questa con loro non è stata generosa: gli africani credono in un avvenire migliore anche quando gli altri uomini non avranno più speranza; essi porteranno il ridere, la vita poiché sono vivi.
In un mondo dove la globalizzazione permette che il 20% delle persone ricche della Terra utilizzi l'85% delle risorse totali dell'intera popolazione, la cosiddetta economia dell'opulenza, gli africani porteranno un' infinità di doni all'uomo, non quello fabbricato dall'Europa ma l'uomo creato da Dio: ci insegneranno ad amare per scoprire le nostre debolezze poiché amare significa proprio colmare con l'altro i vuoti che abbiamo dentro di noi così come beviamo acqua quando siamo assetati e stanchi.
Forse un giorno il sogno di Hermann Hesse, a cui spero di aver contribuito si avvererà: "un mondo che sia Unità nella molteplicità".